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C’era una volta un momento storico nel quale i consumatori erano prevedibili, a volte poco informati e le aziende facevano il bello ed il cattivo tempo.
Ora è tutta un’altra storia: il contesto geopolitico è schizofrenico, e il consumatore è insieme sia totalmente libero che schiavo, nonché iper-stimolato dalle mille scelte a sua disposizione. E siccome la pandemia non ha stravolto abbastanza tutto quello che pensavamo di conoscere, ecco che abbiamo davanti a noi un'altra scossa (l’ennesima) di assestamento di un settore che ormai tenta con non poche difficoltà di mostrarsi antifragile. Il merito (o la colpa, dipende dai punti di vista) è dell’intelligenza artificiale, in un modo che forse non ci saremmo mai aspettati.
Gartner nel 2023 aveva previsto che entro il 2026 oltre l'80% delle aziende avrebbe utilizzato API o modelli di intelligenza artificiale generativa. E ci siamo quasi, se è vero che il survey di CoSchedule, rivolto a professionisti e creativi, ha rilevato come i contenuti prodotti dall’IA soddisfino già il 38% degli intervistati (con un aumento della produttività del 55%). E secondo un report di Bain, è proprio il marketing l’ambito lavorativo nel quale l’IA sta avendo l’impatto maggiore. Tutto sembra quindi essere più veloce, più efficiente, addirittura più bello.
La verità è che quello tradizionale, di marketing, si è rivelato spesso sin troppo macchinoso, impantanato in approvazioni infinite, allineamenti su allineamenti, meeting inconcludenti, produzione artigianale di contenuti per ogni singolo canale o A/B test estremamente lenti (e costosi). Un’impalcatura barocca concepita per un’altra epoca, quando ancora si fumava in ufficio, con i piedi poggiati sulla scrivania e pure con un certo vanto.
Ora il mantra è lanciare campagne complete in un solo giorno, senza sviluppatori o team troppo folti (anzi basta solo una persona, perché poi il costo del lavoro è sempre troppo alto, governo ladro), e ovviamente senza intoppi. Un domani lo chiameremo solo marketing, ma oggi ci divertiamo ad utilizzare il neologismo vibe marketing. Ossia un approccio snello, intelligente, adattivo. Magari radical chic, se vogliamo.
Il vibe marketing, in sostanza, si fonda su un nuovo ecosistema di strumenti per generare interfacce in modo istantaneo come Lovable, Replit, Bolt o su piattaforme di automazione, potenziate (o potenziabili) da IA come Lindy, Gumloop, n8n, Make (e gli usual suspects generativi come Midjourney o RunwwayML).
In questo modo si possono lanciare campagne omnichannel, creare contenuti su misura, analizzare i risultati in tempo reale in poche ore riducendo drasticamente tempi e costi demandando tutto alle macchine. Così che gli umani possano pensare solo ed esclusivamente a quello che li può differenziare dalle macchine (fino ad oggi, almeno): definire la strategia.
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C’è da dire però che l’intelligenza artificiale nel marketing non è una novità dell’ultima ora.
Da più di vent’anni si usano programmini per scrivere in serie, e algoritmi predittivi per ottimizzare i dati. Ma è negli ultimi due anni che abbiamo assistito al vero salto quantico: la generative IA ha preso piede, e da quel momento ha iniziato a fare miracoli (o danni, dipende). Per capirci, oggi ChatGPT, Claude e compagnia bella sono in grado di accompagnare l’utente in tutto il ciclo di vita dei contenuti, dall’ideazione sino alla pubblicazione. E con le API, queste tecnologie si intrufolano ovunque. Microsoft, Google, Adobe, Salesforce, Hubspot, Zendesk o qualsiasi CRM di nuova generazione stanno ripensando alla loro offerta in chiave generativa o, in certi casi, addirittura facendo pivot verso qualcosa di profondamente diverso da quello che era il loro core business principale. Il mantra se non usate l’IA nei vostri processi aziendali, la userà qualcun altro non è bello da sentire, ma è brutto perché è vero, per quanto non ci possa piacere.
Evidentemente, in tempi di margini sempre più risicati e clienti sempre meno fedeli, la tentazione di automatizzare tutto è molto forte. Il rischio, però, è quello di segare il ramo su cui siamo appollaiati. Perché se l’IA sa fare tutto, a che diamine serviamo noi poveri esseri umani?
I primi segnali non sono affatto confortanti: Microsoft decide di lasciare a casa quasi 7000 dipendenti, e le dichiarazioni di Micha Kaufman, CEO e founder di Fiverrr sono controverse. Poi c’è Zuckerberg, che dà i creativi praticamente già per morti. In effetti, se pensiamo ai call center, questo processo è già in atto: prima la delocalizzazione in Albania, poi quella nel cloud. Lo dice anche Tata Consultancy: l’IA è destinata a sgretolare interi reparti di customer service (se questo può andar bene per gestire i resi o le FAQ, funzionerà forse meno in caso di lamentele complesse o clienti difficili da riconquistare).
L’IA sta cambiando le regole, quindi, e sta rimescolando nuovamente tutte le carte. E no, non è come col metaverso. Questa non è mica fuffa. In tempi brevi, gli assistenti virtuali come Copilot o Gemini cercheranno prodotti al posto nostro, li acquisteranno per noi, e gestiranno eventuali rotture. ChatGPT si sta preparando per lo shopping, con programmi dedicati ai merchant mentre Perplexity inaugura una partnership con Paypal che implementerà un carrello in ogni chat. E anche all’italiano, storicamente affezionato alla bottega di quartiere, questa nuova modalità di scoperta di prodotti, inizia a piacere.
Un domani sarà normale che un’assistente digitale consulti le T&C di un sito o parli con il chatbot per risolvere un problema, senza che il cliente (umano) alzi un dito. Vedi quello che sono in grado di fare Manus o Convergence, ad esempio:
Ma è una buona idea affidare tutto questo all’IA?
Non lo so, non sono il Frate Indovino. Lo decideranno i consumatori, come sempre. E illudersi che vogliano a prescindere l’esperienza umana è peccare di presunzione. In alcuni casi magari sì, in altri potrebbero preferire solo sbrigarsela, ma quello che possiamo dire senza il timore di essere smentiti è che si sta creando una marcata polarizzazione tra gli acquisti meccanici, dove l’unica discriminante è il prezzo, e quelli di piacere. E con i primi, il cui unico kpi da attenzionare è la marginalità, l’IA sarà un’arma spietata, perché automatizza, taglia i costi, incrementa la produttività.
Siri, Alexa o Google Assistant avrebbero voluto stravolgere tutto, e invece sono diventati timer per la pasta, però ora l’ecosistema è mutato ed i chatbot potenziati dal machine learning hanno memoria, contestualizzazione e si adattano a quello che chiede l'interlocutore. Tra l’altro, sono in grado di parlare con altri agenti, addirittura a negoziare. A quel punto, il cliente finale potrebbe non essere più una persona, ma un altro assistente virtuale.

La cosa più ironica? I brand che avevano puntato tutto sull’esperienza personalizzata, sul servizio umano, sulla relazione tailor made, si ritrovano ora in deficit competitivo. Solo chi ha una proposta davvero unica (per prezzo o per valore) sopravviverà. Tutti gli altri dovranno reinventarsi, o puff, spariranno.
In mezzo a tutto questo, poi, ci sono loro, gli amati clienti, che non vogliono più perdere tempo, che vogliono tutte le risposte pronte e subito, ma si offendono se dall’altra parte le loro imprecazioni si scagliano contro una fredda controparte artificiale. Un dualismo che si riflette anche nei comportamenti.
E per i brand, sarà ora di decidere. Non sarà più abbastanza presenziare il mercato, ma capire dove stare. O si diventa indispensabili, oppure desiderabili.
Tutto il resto è noia.
The Switch è una bella newsletter sul cambiamento. Una collezione di storie, pensieri, riflessioni su come il branding possa ispirare e guidare la crescita. Un dialogo aperto e stimolante, che porta allo scoperto punti di vista e anime delle persone di CBA. E l’ultima uscita è imperdibile.
Prendete Wikipedia, fatele fare una cura ricostituente ed avrete Wikiwand.
Nonostante la grossa crescita di ChatGPT & Co, il traffico generato da IA è ancora 26 volte inferiore a quello di Google. Google che nel frattempo (sempre parlando di IA, ça va sans dire) lancia una serie di strumenti da far accaponare la pelle da quanto so’ fighi. Qui c’è una panoramica sull’ultimo keynote tenutosi a Mountain View.
Un post toccante di
che spiega cosa sta trasformando il nostro rapporto col lavoro e cosa ci sta dicendo della nostra società.Stiamo avendo un problema con questo emoji: ✨.
Un video TikTok (tra l’altro molto simpatico) racconta cosa si cela dietro il Made in Italy.
191 esempi di social proof applicabili ad ogni tuo progetto.
Higgsfield è il new kid on the block della generazione foto e video.
L’alternativa Europea a WeTransfer c’è e si chiama SwissTransfer.
Una carinissima collezione di icone scheumorfiche.
Meco è dove posso godermi le mie newsletter preferite fuori dalla casella email in tutta calma, leggendole in modo più pulito. E l’app, sia per iOS e ora anche per Android, è fatta molto bene.
dannati amati clienti :)
Viviamo tempi complessi e fare previsioni è davvero arduo. L’unica è osservare, cercare di capire i nuovi meccanismi ed evolvere, in qualche modo.
Non credo sia un caso che questa spinta velocissima e sempre più performante vada di pari passo con una crisi verso il lavoro come lo conoscevamo, una richiesta di più spazio di vita, ricerca di significato, lentezza.
Resta da capire se queste due tendenze saranno vicendevolmente alleate o se ci sarà sempre più frizione e conflitto tra il mondo in arrivo e quello di cui sentiamo il bisogno.