Non è il tuo capo, ma parla come lui
Possiamo catturare l’essenza di una persona con un algoritmo?
Ciao da Alghero!
Non mi ha sorpreso più di tanto, ma il podcast a corredo della scorsa edizione ha suscitato reazioni contrastanti. D’altronde se siete iscritti ad una newsletter immagino preferiate leggere piuttosto che ascoltare. La parte interessante è che però sto studiando come automatizzare la creazione di contenuti audio, e che potrei sfruttare per fare una cosa carina qui su LetMeTellIt in futuro. Se riesco, tempo permettendo, vi farò vedere di che si tratta.
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Possiamo davvero racchiudere l'essenza di una persona in un algoritmo?
Questa mia considerazione nasce dopo aver scoperto l’esistenza della piattaforma Delphi, che promette, in modo velatamente distopico, di creare il tuo clone digitale che parla come te, pensa come te, risponde come te.
Fai l’upload dei tuoi contenuti, attendi il training del modello, et voilà, eccoti immortale, o quasi.
Ho menzionato “distopico” non a caso. C’è una scena in un episodio di Black Mirror (la mia serie prefe) dove una vedova chatta con la versione digitale del marito morto (sì, in Cina ci sono già arrivati).
Solo che qui non siamo più nella fiction: tecnicamente è già possibile, costa qualche centinaio di dollari al mese, e c'è gente che lo fa davvero. Con persone ancora in vita.
Per ora si tratta di coach, imprenditori, giornalisti, che cercano di convogliare tutto il loro know-how, racchiuderlo all’interno di un algoritmo e servirlo quando un utente conversa con il loro avatar online.
Ho passato un'ora a parlare con Sahil Lavingia, un famoso imprenditore americano. E l'esperienza è stata perturbante nella sua verosimiglianza. Non nel senso che credessi davvero di parlare con lui (non sono ancora così naif), ma nel modo con cui il sistema aveva catturato i suoi tic linguistici, le pause e persino quel modo irritante di rispondere a una domanda con un'altra domanda, tipico dei guru tech americani.
La cosa che mi inquieta di più non è tanto la tecnologia in quanto tale. È l'idea che stiamo mercificando la conoscenza, ed anche la presenza umana, trasformandola in un servizio on-demand, sempre disponibile, ed infinitamente scalabile.
A ben vedere, potrebbe trattarsi di una soluzione vantaggiosa, a patto di non affidare integralmente il nostro patrimonio di conoscenze in toto a un modello linguistico. La creazione di una knowledge base, anche sommaria, può infatti rivelarsi preziosa in diverse circostanze, soprattutto quando la relazione con il cliente richiede un approccio più diretto e personale, e un risponditore automatico o una semplice email preimpostata rappresenterebbe una scelta troppo asettica. L’implementazione tecnica, del resto, può essere realizzata con relativa semplicità, ad esempio tramite l’integrazione di API esterne (vedi le Assistant API di OpenAI) capaci di interagire agevolmente con le nostre interfacce.
A questo punto il CEO di un'azienda potrebbe parlare contemporaneamente con migliaia di dipendenti, un responsabile delle risorse umane potrebbe licenziare migliaia di lavoratori senza dover interagire con alcuno di essi, un life coach potrebbe offrire mentorship personalizzate a chiunque paghi un abbonamento (che è, appunto, quello che accade in Delphi).
Ma cosa succede quando la scarsità che rende di valore le relazioni umane viene eliminata dall'equazione?
Perché sta cosa dei chatbot ci sta sfuggendo di mano. C'è un paper del MIT Media Lab che analizza come le persone tendano a confidarsi più facilmente con i chatbot piuttosto che con gli esseri umani, proprio perché sanno di non essere giudicate. Non è un caso che la Generazione Z, spesso considerata la più instabile dal punto di vista emotivo, sia anche quella che più frequentemente si è rivolta a chatbot digitali (come Character.ai), nel tentativo di colmare il senso di solitudine e di superare la diffidenza e la paura del giudizio altrui.
E questa settimana il New York Times riporta alcune storie di persone che sono entrate in relazioni strane e tossiche con un'Intelligenza Artificiale: c’è chi, conversando con ChatGPT, è arrivato a credere di vivere in un Matrix e di dover fuggire da questa realtà; un’altra persona si è convinta di essere in contatto con un’entità superiore tramite la chat; un’altra ancora si è innamorata di un’entità chiamata Julia, per poi essere persuasa dal modello che questa era stata uccisa dalla società proprietaria dello strumento, OpenAI.
Episodi come questi dimostrano come le straordinarie capacità dell’intelligenza artificiale possano trasformarsi in un rischio concreto, soprattutto per chi già convive con fragilità o disturbi psicologici. I più giovani direbbero touch grass, ma è un fenomeno sempre più grande e che non possiamo trascurare.
Eppure c'è qualcosa di affascinante nell'idea di poter preservare non solo le parole di qualcuno, ma il suo modo di pensare.
Mio padre se n’è andato portandosi via tante storie che non avevo ancora potuto ascoltare.
Quante conversazioni non abbiamo avuto perché non c'era tempo, perché ne parliamo dopo? Se avessi potuto creare un loro clone digitale per una persona a me cara, l'avrei fatto?
Questo è un territorio inesplorato dove le categorie di autentico e artificiale si fanno sempre più sfumate. E non è più una questione di se questi cloni diventeranno parte della nostra vita, ma di come decideremo di integrarli.
Mi chiedo se tra vent'anni guarderemo a questo momento come all'inizio di qualcosa di meraviglioso o di terribile.
Sophie Bakalar presenta un approccio interessante alla rivoluzione dell'intelligenza artificiale: al di là del fatto che ora l'intera conversazione ruota attorno alla capacità dei modelli, per lei la chiave è chi troverà l'interfaccia giusta per farla raggiungere ai consumatori. Insomma, chi sarà la Apple dell’intelligenza artificiale?
Sebbene i risultati siano preliminari e il campione ristretto, un recente studio del MIT Media Lab mette in guardia circa il rischio che la dipendenza da IA possa ridurre la memoria, la creatività e l’autonomia di pensiero, soprattutto nelle fasi di crescita cognitiva.
La popolazione mondiale è sempre più vecchia, quindi Uber ha sviluppato una versione semplificata della sua app per aiutare gli anziani a salire sulle loro auto.
Louis Vuitton ha allestito una gelateria. Così, de botto, senza senso (in Versilia, tra l’altro).
La gargantuesca macchina degli A/B test messa in piedi da Booking.
Persone che puliscono statue.
Siamo nell’era post-follower dei social: è l’algoritmo, più che i follower, a determinare ormai la diffusione dei contenuti.
Browserbase è una piattaforma cloud che automatizza qualsiasi attività eseguibile tramite browser, come compilare form, scaricare dati o navigare tra pagine web, senza bisogno di gestire server o infrastrutture proprie, risparmiando tempo e risorse. Molto simile c’è Director.
OpenRouter non è semplicissimo da configurare, ma puoi aggregare in un’unica piattaforma tutte le tue API (di OpenAI, Anthropic, Google, ecc.) e gestirle in autonomia. Diversamente da Poe, non devi pagare un abbonamento mensile da 20 dollari, ma solo quello che consumi.
Meco è dove posso godermi le mie newsletter preferite fuori dalla casella email in tutta calma, leggendole in modo più pulito. E l’app, sia per iOS e ora anche per Android, è fatta molto bene.