Ciao,
credo tu l'abbia notato: LetMeTellIt ha cambiato faccia.
Dopo aver riflettuto a lungo, ho deciso che sarebbe stato meglio adottare una brand identity più rilassata e riposante per gli occhi. Anche se non sono un designer, mi auguro che apprezzerai il cambiamento. Il verde shocking e il nero che usavo in precedenza erano decisamente affaticanti e poco adatti alla lettura.
Ma non sarà solo l’aspetto grafico a cambiare. Cambierà anche il mood generale della newsletter.
Tra poche settimane diventerò padre, e immagino che questo renderà più complicato mantenere la cadenza settimanale della newsletter. So quanto sia importante per te avere una routine di lettura, ma se questa va a scontrarsi con le nuove tempistiche e responsabilità derivanti dalla paternità, beh, dovrò necessariamente tirare il freno a mano e rallentare un po'.
Perciò, aspettati probabilmente meno email da parte mia, ma non per questo meno interessanti. Se una parte le uscite saranno più irregolari, ti assicuro che continueranno a essere ricche di impegno e di ricerca. E se vorrai condividerle con i tuoi amici o colleghi mi riempirai di gioia.
Com’è che si dice? “Quality over quantity”?
Ecco, è proprio questo il mantra che seguirò d'ora in poi.
Spero che comprenderai e apprezzerai questa mia scelta. E se così non fosse, troverai sempre il pulsante per disiscriverti in fondo all'email. No hard feelings.
A presto,
Antonio
Nelle ultime settimane ho visto diverse pubblicità della (nuova) attività commerciale di Joe Bastianich che aprirà a poca distanza da casa mia: un fast food chiamato Joe’s American Smashburger. Un italo americano che inaugura ristoranti gourmet italiani in USA e fast food americani in Italia. Esiste qualcosa di più globale?
L’ennesimo panino e l’ennesima hamburgeria che apre a Milano. Nella mia zona, ho provato a contarli qualche giorno fa, ce ne saranno almeno una quindicina. Nonostante i presidi slow food, nonostante i DOP e la dieta mediterranea, il prodotto con la più alta marginalità delle cucine smart - ma comunque meno della pizza - continua a regnare incontrastata nei gradimenti culinari degli italiani.
Oltre ai soliti noti McDonald's (che in Italia può contare su quasi 700 punti vendita) e Burger King, anche Burgez, Bun, Hamerica’s, Flower Burger, Donna Burgherita e tantissimi altri, ognuno con una leva differente. Ci sono gli hamburger alla milanese, alla romana o alla napoletana, ci sono quelli di pesce, quelli veg, quelli gourmet, quelli colorati e quelli fusion (anche se io aspetto sempre Shake Shack). Insomma, l’amore tra il burger e gli italiani, quel burger che è stato anche il trampolino di lancio di Carm in The Bear, è cosa nota e che affonda le sue radici sin dagli anni ‘80, e la storia di Burghy (l’antesignano di tutti i burger tricolori) sta lì a ricordarcelo.
In principio fu il King Bacon
Se hai più di un capello bianco, la storia la sai già, ma facciamo un ripassino veloce.
Era il 1981 quando la catena Burghy vide la luce sotto l’egida dei supermercati GS, per poi passare nelle mani di Cremonini S.p.A., il gigante della carne che decise di gettarsi nell’avventura del fast food con una mossa piuttosto audace: proporre cibo americano, ma cucinato con materie prime italiane. In quegli anni, l'Italia era ancora ancorata alla sua tradizione gastronomica, e il concetto di fast food era più uno sfizio esotico che una vera esigenza. Ma con l'aumento del benessere economico, anche i bisogni alimentari iniziavano a riflettere la ricerca di un nuovo tipo di lusso. Il primo punto vendita aprì le porte a Milano in Piazza San Babila, e i milanesi iniziarono subito ad affollare il locale, attratti dalla velocità del servizio e dalla possibilità di mangiare qualcosa di diverso dalla solita pasta o pizza (e la novità di dover mangiare qualcosa con le mani). Il boom economico portava sempre più fame di internazionalizzazione.
Bene, questo shift economico/culturale portò inevitabilmente anche ad una serie di mutamenti nei comportamenti di acquisto e nella nascita di sottoculture urbane, come quella dei paninari, che non erano solo semplici avventori ma che rappresentavano quasi un vero e proprio cluster demografico (se vuoi fare un tuffo nel passato o capirci qualcosa non perderti questo approfondimento di NSS Magazine). La user persona includeva discutibili outfit marchiati Moncler ed El Charro, una morbosa predilezione per la musica dei Duran Duran e Pet Shop Boys ed un linguaggio particolarmente grezzo ed autoreferenziale, che diventò oggetto di esilaranti parodie televisive.
Come tante storie belle, nel 1996 finì anche quella Burghy, che venne inglobata da McDonald’s durante il suo piano espansionistico europeo.
Fu una mossa che rappresentava la logica conclusione di una competizione che Burghy non poteva più sostenere, con la multinazionale americana che comprò tutti i 96 punti vendita di Burghy in un colpo solo, inglobando il marchio, ristrutturando gli immobili presenti sotto l'insegna del proprio brand e mantenendo alcune proposte gastronomiche come il King Bacon diventato poi Crispy McBacon. In poco tempo, i locali di Burghy sparirono tutti rimpiazzati dalle Golden Arches di McDonald’s, segnando definitivamente la fine di un’era.
L'eredità di Burghy è ancora tangibile oggi nelle numerose - forse fin troppe - catene di fast food che popolano le strade italiane. Burghy rappresentava un tentativo di fondere la cultura alimentare italiana con la crescente globalizzazione e che, con una certa ambizine, cercava di emanciparsi dalla solita pubblicità all'italiana per tentare di scimmiottare i giganti americani: non mancavano operazioni promozionali con concorsi a premi o cross promotion incrociate con altri brand, eventi e programmi TV (se hai avuto un’infanzia serena ricorderai quella con Bim Bum Bam).
Enter Burgez
Fast forward di 40 anni: Burgez nasce in un contesto completamente diverso dove il fast food non è più una novità, e in cui il pubblico italiano ha già familiarità con l’esperienza culinaria di McDonald's. Burgez, per emergere, non si fa assolutamente alcun problema ad usare un linguaggio naif, con messaggi al limite più estremo del politically correct. Probabilmente quanto di più lontano concettualmente dai messaggi che invece voleva far passare Burghy.
Proprio nel 2021 ci fu una trovata di nostalgia marketing che rappresentò il trait d’union tra i due marchi. Burgez, per mano del founder Simone Ciaruffoli, decise di sfruttare proprio il logo di Burghy per promuovere l’apertura di un nuovo punto vendita a Monza, e fu tutto sommato un’idea carina. Meno carine furono quelle di regalare, durante la festa della donna, magliette con istruzioni su come praticare il doggy style perfetto, o quella di pubblicare un annuncio di lavoro, contemporaneamente sia sessista che razzista, dove si cercavano solo ragazze filippine perché quelle italiane avevano il moroso o la palestra.
Nel controverso repertorio stilistico di Burgez non è inclusa l’eleganza: il brand non punta certo a rassicurare con famiglie da Mulino Bianco o simpatiche mascotte; al contrario, usa l’ironia tagliente, toni dissacranti e spesso un linguaggio schietto, quasi da strada, per attirare un pubblico giovane, più interessato all’autenticità che all’etichetta.
A giudicare dai commenti sotto ogni post social, la community è molto reattiva e allineata, tanto che se definissimo i loro fan come i nuovi paninari, nessuno potrebbe obiettare.
Burgez basa la sua comunicazione irriverente su meme, post, commenti o reel di vario tipo, su temi attuali o evergreen. Nulla di innovativo, sia ben chiaro. Anche qui l’ispirazione proviene dall’altra parte dell’Atlantico: Wendy’s è da anni che nei suoi reel si prende gioco di McDonald’s e delle sue macchine per fare il gelato perennemente rotte, riprendendo il furgoncino Frosty Fix posizionarsi in modo strategico di fronte ad un qualsiasi punto vendita di Big M. In Italia queste cose non le possiamo fare, ok, ma in un contesto spesso fin troppo abbottonato come il nostro, ci sta che chi prova a fare un po’ più di baccano, venga reputato geniale dai più.
Se vogliamo possiamo pensare ad un fil rouge comunicativo tra Burgez e Liquid Death, il brand americano di acqua in lattina (del quale ne avevo parlato qualche mese fa). Infatti, credo di poter riciclare questo trafiletto e usarlo per descrivere il tono di voce di Burgez senza timori di alcuna perdita di efficacia:
C'è molto da imparare da come [Liquid Death] gestisce la sua comunicazione, ma per me la cosa più importante è la brutale onestà con cui forgiano il loro brand. Quando capisci che i consumatori iniziano ad odiare la pubblicità - o, peggio ancora, la ignorano - non puoi fare nulla di differente per farti notare. E nelle segrete stanze del marketing si dovrebbe accettare il fatto che nessuno pensa ai propri brand più di quanto non lo facciano loro, e che un reality check andrebbe fatto ogni tanto.
Ogni brand ha saputo parlare al suo tempo e al suo pubblico: Burghy cercava di far innamorare un’Italia che ancora scopriva il fast food americano, mentre Burgez, oggi, si diverte a rompere gli schemi con un linguaggio anti-conformista. Due epoche, due pubblici, due voci molto diverse per lo stesso obiettivo: farti venire voglia di mordere un dannato hamburger.
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