Ciao !
scusa l’assenza della settimana scorsa, ma i futuri papà devono prepararsi: psicologicamente, fisicamente e culturalmente. E questa preparazione, a volte, può portare a dedicare meno tempo ad altre attività, come scrivere questa newsletter. In ogni caso, future incombenze permettendo, cercherò di arrivare ogni settimana nella tua casella email, cercando di portare contenuti sempre interessanti.
A proposito, sai che Newsletter Italiane ha un nuovo vestitino? Sì, è un filo più moderno e pone l’accento sul servizio di intermediazione pubblicitaria tra brand ed autori. Se sei interessata o interessato ad avere più informazioni dagli un occhio.
A presto,
Anto
Negli ultimi giorni ho potuto assistere, da spettatore neutrale (non mi piacciono né come artisti, né come personaggi) alla diatriba - pardon, al dissing - tra Fedez e tale Tony Effe, un losco figuro reo di aver pubblicato un pezzo non particolarmente lusinghiero nei confronti dell’ex di Chiara Ferragni.
E questa singolar tenzone mi ha fatto ragionare, ancora una volta, sul ruolo che possono o dovrebbero avere i cosiddetti influencer, e sul fascino - in calo - che esercitano verso gli utenti più giovani.
Va detto che l’influencer marketing non è cosa recente: abbiamo avuto l’antesignano Arnold Palmer, grande golfista ma soprattutto ambassador moderno, che negli anni ‘60 ebbe il potere di convincere centinaia di migliaia di americani che fumare e guidare una Cadillac fosse cool, e che potè contare su collaborazioni del calibro di Rolex, General Motors, Ford, Coca Cola, Hertz e altri, spianando la strada - di fatto - agli influencer di oggi.
Numeri alla mano, Palmer è stato in grado di generare indirettamente molto più profitto dalle sponsorizzazioni, che direttamente dal suo talento. Ed è in questo che Palmer ha mostrato la via non solo ai Jordan, Woods o Federer ma anche e soprattutto a Fedez & Co. Il segreto? Monetizzare l’essere un personaggio pubblico, trasformando la propria immagine in una macchina da soldi. E, furbescamente, una strategia che ha fatto le fortune ma anche le disgrazie di molti brand. Perché se un’azienda con gerarchie e procedure definite può essere ancora gestita in modo prevedibile, con un personal brand è tutt’altra storia.
Un influencer è una sorta di oracolo moderno: se indossa una felpa di un determinato brand, quella finisce sold out in pochi giorni. E se un brand ritiene che ne valga la pena, può decidere di mettere anni e anni di buona reputazione, ricerca, innovazione, sudore, lotte sindacali nelle mani di un personaggio, che nel suo skillset può contare su grande fotogenicità, un’invidiabile capacità di creare adepti e doti attoriali appena sufficienti a convincere i suoi seguaci della bontà di un determinato prodotto.
Il problema, oggi, è che quest’opera di convincimento non sempre sembra così spontanea come una volta, eppure tante aziende continuano ad affidare la propria comunicazione in toto agli influencer, a colpi di contratti da capogiro, sperando che i 100k o più follower riescano a fare la magia. Ma la magia, ultimamente, non funziona più bene come prima. Anzi, spesso alcuni brand rischiano di buttare all’aria anni e anni di brand activism, di D&I, di purpose quando scelgono di legare la propria immagine al personaggio del momento.
D’altronde l’uomo comune è ossessionato dalle celebrità, e questo lo sappiamo benissimo. E sono sicuro che lo sappia anche la Red Bull, che ha fatto della tolleranza e della sportività il suo credo principale, quando ha legato il suo marchio alle rime infelici di Tony Effe, in un periodo storico particolarmente sensibile a determinate tematiche. Ma forse, finché i click e i follow saranno l’unica religione professata negli uffici marketing, tutto sarà perdonato e perdonabile.
…
Vengo da Roma centro, ho la pistola giallorossa
Voi la chiamate "la figa", noi la chiamiamo "la sorca" (Seh)
C'ho le mani pesanti, schiaffeggio la tua troia (Seh)
Co-Cocaina e Winstrol, esplodo come una bomba (Grr, pow)
Fumo crack dalla busta
…
Riagganciandomi al tema principale, anche la fiducia tra influencer e follower sembra si stia lentamente affievolendo. Un tempo, se l’influencer consigliava qualcosa, lo faceva perché ci credeva davvero. O almeno così appariva agli occhi dei meno smaliziati. Ora sappiamo tutti che dietro quegli hashtag #adv c’è un contratto di collaborazione, e sappiamo pure che quel prodotto non è realmente il migliore secondo i criteri di scelta di chi lo sta pubblicizzando ma piuttosto quello di chi ha potuto regalare agli influencer di turno l’all-inclusive maldiviano. E ciò non ha fatto altro che sgretolare il rapporto di fiducia tra pubblico e influencer.
Oggi, su piattaforme come TikTok, i contenuti pubblicitari ci raggiungono anche senza che li seguiamo, il che rende difficile evitarli anche se non li troviamo autentici.
Quindi non è solo un trend: i giovani stanno davvero abbandonando gli influencer come se fossero la vecchia fiamma tossica da cui, finalmente, hanno preso le distanze. Lo fanno perché si sono stancati di un flusso infinito di contenuti che suonano smaccatamente artificiali (e no, l’IA non c’entra questa volta) e perché influenzano negativamente anche la loro salute mentale. Insomma, il fattore della reliability è cruciale.
Nell’interessante white paper di Samyroad su influencer fatigue (la stanchezza da influencer) emergono alcuni dati interessanti:
Il 67% delle aziende usa Instagram per l’influencer marketing, ma solo il 3% dei consumatori è influenzato da celebrity influencer. Il 47% degli utenti è "stanco" dei contenuti ripetitivi e il 34% li considera pura pubblicità. Gli utenti preferiscono di gran lunga i contenuti generati dagli utenti (UGC), con l’86% che li ritiene più affidabili rispetto a quelli degli influencer. Solo il 12% si fida ancora dei prodotti promossi dagli influencer.
Qui entra in gioco la parte succosa: se la Generazione Z ha le scatole piene degli influencer, cosa succederà al marketing? Beh, si aprirà una nuova era. O meglio, si tornerà all’era del passaparola (anzi ci siamo già), puntando su micro-influencer o - ancora meglio - su clienti reali o dipendenti del brand stesso.
Un’altra chiave di lettura è quella che ha fatto WeAreSocial nel suo Next Gen Influence Report.
Ad esempio, il concetto di realismo relazionabile si riferisce a una nuova tendenza nei contenuti lifestyle, che punta a presentare obiettivi e stili di vita accessibili per il pubblico, piuttosto che promuovere ideali irraggiungibili e lussuosi. La disillusione verso l'aspirazione tradizionale basata sul lusso (marchio di fabbrica dei fu Ferragnez & co.) è ai massimi storici, in un contesto economico in cui molte persone stanno lottando per mantenere la propria stabilità economica piuttosto che inseguire uno stile di vita eccessivamente ambizioso.
In passato, l’influencer marketing si basava molto sul mostrare una vita patinata, con case, vacanze, auto e abiti fuori dalla portata della maggior parte delle persone (da manuale il backlash mediatico successivo alla campagna promozionale del brand di cosmetici Tarte). Oggi, però, le difficoltà economiche hanno spinto molti a cercare contenuti che riflettano situazioni più realistiche e vicine alla loro realtà quotidiana. In questo senso, il realismo relazionabile aiuta a ridurre la distanza tra il creator e il pubblico
Perché alla fine, il pubblico vuole una cosa semplice: qualcuno di cui fidarsi ed una voce autentica in mezzo al rumore. E questa è diventata una merce sempre più rara.
Si dice che le IA riusciranno a ragionare come noi esseri umani nell’arco di 10 anni. Ma c’è una cosa che le IA non riusciranno mai a fare: ossia percepire il mondo che ci circonda (aka il paradosso di Moravec).
La tua è una 15 minute city? La città da 15 minuti è un concetto di pianificazione urbana che promuove l'accessibilità ai servizi principali in meno di 15 minuti da qualsiasi punto della città, a piedi o in bicicletta, col fine di ridurre le emissioni dovute ai trasporti privati e migliorare la vivibilità e la sicurezza dei quartieri. Questa mappa riporta più di 10.000 città, anche italiane, classificate come 15 minutes city. Magari in Italia non siamo messi benissimo, ma se paragoniamo le nostre a quelle americane, non c’è gara.
5 tecniche interessanti per riproporre vecchi contenuti e farli sembrare sempre freschissimi.
Sai cos’è il Lipstick Effect? È un fenomeno per cui, in tempi di crisi, i consumatori aumentano l'acquisto dei beni di lusso più accessibili, come i rossetti, appunto. Oggi questo effetto si sta spostando verso i profumi di nicchia e prende il nome di Perfume Effect.
Il solito imperdibile deep dive di Matthew Ball interamente dedicato ad OnlyFans, piattaforma del Regno Unito nota per ospitare contenuti amatoriali per adulti, che ha raggiunto 6,3 miliardi di dollari nel 2024, grazie alle microtransazioni tra content creator e fans. Il suo futuro, però, potrebbe essere messo in discussione dall'intelligenza artificiale generativa e dagli avatar digitali.
Visto che vanno di moda i video verticali sottotitolati stile TikTok, FastCut è lo strumento da provare. Dai sottotitoli animati ai b-roll passando per gli effetti sonori, tagli cinematografici ed emoji, promette di fare tutto con un click.
Msty è un programmino molto semplice utile per testare diversi modelli di intelligenza artificiale generativa, direttamente sul tuo computer. Ci sono quelli più importanti come ChatGPT, Claude e Google Gemini ed è gratuito per uso personale.
Un’app che combina mappe mentali con la possibilità di prendere appunti e note. Organizza e collega tutti i tuoi pensieri in un unico posto. Se ti piacciono Obsidian e Notion, allora amerai anche Scrintal.