Rieccomi! Scusate l’attesa e se esco insolitamente di mercoledì, ma mi aspettano giorni concitati.
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A casa mia gli algoritmi hanno ormai l’ultima parola - moglie permettendo - su tutto. Decidono cosa dovrei ascoltare su Youtube Music, cosa guardare su Prime, quale video mi comparirà su TikTok, persino cosa comprare su Amazon. Un eco continuo che mi rimanda sempre alle stesse scelte, rafforzando le mie convinzioni su cosa già so di apprezzare. Tanti parlano di eco chamber e polarizzazione, ma tutto ciò porta ad un'altra insidia più sottile che spesso ignoriamo, ed è quella della banalità.
Vai su YouTube: creator che scimmiottano altri creator, cercando disperatamente di forgiare l’algoritmo a loro uso e consumo, accumulare like e - perché no - fare fortuna. È una beastification dei contenuti senza soluzione di continuità: surprised face, jump cut e le solite idee remixate, mille versioni dello stesso video. E ora questa insipienza sta contagiando anche LinkedIn (i video verticali sono arrivati anche qui), soffocando ogni scintilla di verace originalità.
Siamo in un’epoca dove chiunque può avere tra le mani strumenti che vent’anni fa potevamo solo vedere in qualche saga sci-fi, eppure la vera creatività sembra scemare ogni giorno di più. E allora viene da chiedersi: in questo contesto, i brand, come diavolo dovrebbero comportarsi?
C’è una strada: quella di abbracciare l’umanizzazione. E farlo senza schemi o timori di apparire fuori luogo. La gente è stufa dei contenuti senz’anima, e i marchi che osano andare oltre, parlando lo stesso linguaggio dei loro consumatori, hanno la possibilità di farsi notare.
Ok, faccio outing: questo particolare tipo di marketing senza peli sulla lingua mi fa impazzire. Viene spesso menzionato nei miei interventi qui, su Linkedin o Instagram e ovviamente non sono nemmeno l’unico a pensarla così. Perché intrattiene, è fresco, al passo con i tempi.
Qualche settimana fa avevo parlato di Liquid Death: un brand americano di acqua in bottiglia che ha puntato tutto sull’ironia tagliente e lo stile provocatorio, facendo l’occhiolino ai bevitori di birra. C’è pure Duolingo, che su TikTok ha trasformato il suo logo in una mascotte delirante, o Surreal, il brand di cereali che sembra più interessato a postare foto di gatti che quelle dei suoi stessi prodotti (facendo comunque profitti).
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In Italia, conosciamo Taffo ed il suo humor nero, Nen che scherza sulle bollette dei competitor, Burgez con i burger dissacranti e persino Ceres, che in un certo senso cavalca la stessa onda già da qualche anno. Sono tutti brand che hanno deciso di andare oltre, di giocare con la propria reputazione e lasciare ai loro team social piena libertà di sperimentare, spingendosi al limite. E, guarda un po', ha funzionato.
In un oceano di contenuti tutti uguali, i brand che osano fare qualcosa di diverso hanno l'opportunità di lasciare il segno. La monotonia ci sommerge, e andare controcorrente non è solo una scelta ma, spesso, una necessità.
Siamo sempre lì: catturare l'attenzione dell’utente è diventato un’impresa di dimensioni gargantuesche. Tom Roach, in un suo articolo, analizza proprio questo aspetto. Fino ad oggi, i brand avevano sfruttato internet soprattutto per puntare su chi era già più o meno propenso all’acquisto. Il vero scoglio, però, è sempre stato ampliare il proprio pubblico. Qui si ha bisogno di tempo, pazienza e, soprattutto, dell’attenzione dell’utente finale, che è sempre più difficile ottenere, perché, diciamolo: chi non ti conosce il più delle volte non ha nessun interesse a starti a sentire.
Questa estenuante ricerca dell’attenzione, però, ha costretto i brand a trovare modi sempre più creativi, a volte audaci, per restare impressi. È quasi inevitabile: se vuoi rimanere rilevante, devi lasciare un segno, in modo che le persone si ricordino di te, e per farlo, serve qualcosa di più di una pubblicità ben fatta. Bisogna osare, adattarsi a ogni piattaforma come se fosse un mondo a sé e, quando serve, giocarsi qualche asso fuori dal mazzo.
Digiday lo dice chiaramente: per restare impressi, oggi, serve abbattere la quarta parete, parlare la lingua di chi sta dall’altra parte dello schermo, apparire autentici, vicini, veri. È un gioco di sottigliezze e di timing perfetto. Senza contare che spesso, con budget ridotti, si gioca tutto sull'effetto wow per far parlare di sé, sfruttando ogni possibilità di viralità. Ed ecco che è utile conoscere la filosofia brat (neologismo tanto caro alla Generazione Z), ossia il modo con cui un concetto riesce a colpire una community e farla sentire parte di qualcosa di unico. Un mix tra ribellione ed empatia che, nel contesto giusto, può trasformare un semplice messaggio in un fenomeno di massa.
In principio fu il meme
Se esiste questo tipo di linguaggio, lo dobbiamo soprattutto ai meme.
Possiamo ripercorrere l’evoluzione dei meme nel marketing come una saga in tre atti. Nei primi 2000 i meme erano un mix di immagini e battute ripetitive, roba semplice, senza grandi pretese, diffusi su forum e su MySpace. Poi arrivò la fase due, l’ascesa dei meme sui social tra fine 2000 e inizio 2010, con Facebook e Twitter che diventano il palcoscenico per quelli più complessi legati all’attualità, e lì alcuni brand iniziano a sperimentare timidamente. Arriviamo ai giorni nostri, i meme sono un mezzo consolidato ed uno dei principali strumenti di comunicazione online.
I meme sono stati davvero l’apripista a quel che oggi possiamo considerare come real-time marketing, ma forse anche di più: hanno insegnato ai marketer a flirtare con l’assurdo, a mollare il controllo, ad abbracciare la spontaneità. Un codice dadaista ed un linguaggio spesso surreale, che va tanto di moda tra gli utenti della generazione Alpha ancor più che per quella precedente. Con le loro immagini strampalate e battute al limite del nonsense, i meme hanno educato il pubblico a desiderare contenuti fuori dagli schemi, persino ad aspettarseli, ogni tanto. E questo ha cambiato tutto: il nostro modo di scrivere o con il quale interpretiamo le immagini. Anche la grammatica impeccabile è diventato solo uno dei tanti punti di vista.
Oddvertising e antropomorfismo del brand
Catturano l’attenzione quei brand che osano avere una personalità sfrontata, che non si fanno problemi a scherzare, criticare e persino a infastidire chi non è il loro pubblico ideale. La scelta di non voler piacere a tutti è un atto di coraggio, soprattutto quando si gioca con i numeri e il bilancio. Non è una mossa per tutti, ci mancherebbe.
In ogni caso, alcuni hanno capito che l'ironia è una leva potentissima, e c’è chi ha imparato a riderci su, proprio come Ryanair. I loro video su TikTok sono un perfetto esempio: prendono in giro se stessi, i competitor, ma soprattutto i loro clienti. È un modo per dire sappiamo benissimo cosa pensate di noi e, paradossalmente, questo rende tutto più autentico.
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Ma l’irriverenza non è per tutti. Anche se l’oddvertising (un po’ strano, un po’ advertising) può fare il botto quando è azzeccato, è un’arma a doppio taglio. Serve a distinguersi, certo, ma bisogna stare attenti a non sacrificare l’anima del marchio o perdere la fiducia di chi ti segue.
L’umanizzazione, in questo senso, gioca un ruolo estremamente importante. Oggi, umanizzare un brand vuol dire anche renderlo quasi una persona sui social: sarcastica, ironica, e con un tone of voice immediatamente riconoscibile. Proprio la compagnia aerea low cost, in molti suoi video, posta un aereo con degli occhioni giganti, che sembra voglia prendere vita davvero e caratterizzato da uno stile comico sottile, decisamente british.
Ne parlavo in quel pezzo su Burgez: poche cose conquistano gli utenti come l’interazione umana con i brand. E non è solo un’idea romantica, è scienza. Mariana Puzakova, che studia l’antropomorfismo di marca, ha dimostrato che ci ricordiamo molto meglio i brand che ci sembrano umani. Ogni piccolo segnale – visivo, tattile, mentale – è un appiglio che il cervello usa per non dimenticare. Personalmente, non amo guidare e non mi sono mai preoccupato troppo di pneumatici e affini, ma se dovessi comprarne di nuovi, probabilmente andrei subito da Michelin, perché è l’unico brand che mi è rimasto impresso, grazie alla sua mascotte (o forse all’omonima guida).
Repeat after me: fare pubblicità troppo simpa non farà di te un brand vincente.
Se da una parte c’è il richiamo della viralità; dall’altra c'è il rischio di inciampare in qualche guaio legale. Insomma, non basta fare ridere: ci vuole anche attenzione, perché basta una leggerezza per mettere la propria reputazione nei guai. È il delicato equilibrio di un marketer: creatività, senza scivoloni.
Ma essere troppo audaci può essere una trappola: esiste una linea sottile tra l'osare e il ritrovarsi a fare l’ennesima figura barbina. È il classico caso di troppa confidenza che sfocia nel pasticcio (ricordate la figura dimmè di Dolce & Gabbana in Cina?)
In ogni caso, questo approccio un po’ sopra le righe, stravagante e sfrontato è diventato un trademark di molti brand. All’inizio quasi per gioco, ma pian piano è diventato un marchio di fabbrica, appunto: personale, provocatorio, e sì, talvolta un filo oltre il limite del buon gusto (ça va sans dire). E se a volte queste trovate sono state una boccata d'aria fresca, altre volte son state proprio una cringiata.
Ora, il rischio, è proprio questo: vedere tutti i brand applicare a tappeto questa strategia, senza troppe riflessioni sul proprio brand fit. L’audacia non dovrebbe mai essere fine a sé stessa ma - auspicabilmente - allinearsi alla propria value proposition.
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